Una vita per la pallavolo, per lo sport in genere, indossando la maglia azzurra e poi, quella più importante, di capitano della nazionale, calpestando i campi da gioco di tutto il mondo, abbracciando trofei, medaglie, soprattutto portando nel cuore e nei ricordi momenti unici, indimenticabili, come solo chi ha avuto una grande passione può comprendere.
Non ha bisogno di presentazioni Maurizia Cacciatori, il cui nome fa tremare la voce a chi ha seguito le sue gesta e quelle della nazionale del volley degli anni ‘90.
Quattro campionati italiani vinti, 1 campionato spagnolo, 4 Coppe Italia, 1 Coppa della Regina, 3 Supercoppe italiane, 3 Coppe dei Campioni, 1 Challenge Cup, nel 1998 il premio come miglior palleggiatrice del Mondiale e un Oro ai Giochi del Mediterraneo nel 2011. Ha esordito in A1 a soli 16 anni, per poi vestire la maglia azzurra ben 228 volte, diventando una vera icona dello sport.
Oggi lavora nella comunicazione e nel 2018 ha scritto anche il suo libro “Senza rete”, in cui racconta le sue gesta di atleta e a sua vita, fatta di successi e sacrifici, di momenti belli e sofferenze.
Una sportiva e una donna a tutto tondo, che noi di Sport Business Academy abbiamo avuto l’onore di incontrare in occasione dell’invito rivoltole a partecipare al nostro master per manager calcistico come ospite speciale, per portare ai nostri allievi la sua esperienza e gli insegnamenti straordinari derivati dall’attività sportiva.
Come si diventa Maurizia Cacciatori?
“Fina da piccola ho avuto una passione incredibile per quel pallone e per lo sport in genere. Soprattutto mi piaceva il fatto di poter condividere qualcosa con la mia squadra. Per seguire lo sport sono uscita di casa a 16 anni: la mia vita non è stata come quella di tutte le mie coetanee. Ho dovuto fare delle rinunce, come le estati con la famiglia, i viaggi e le uscite con gli amici, avevo pochi giorni di riposo per via degli allenamenti e spesso, anche in quei giorni, dovevo rimanere in albergo con la nazionale. Ma questo non mi è mai pesato, perchè avevo una passione fortissima, oltre al coraggio di mettermi in gioco nonostante mille dubbi e incertezze. Non immaginavo di diventare capitano della nazionale di pallavolo, ma quello che sentivo per certo era che questa grande passione mi avrebbe dato l’opportunità di raggiungere quello che cercavo, ovvero la collaborazione, la condivisione, il fatto di vedere tanti Paesi e conoscere tante culture diverse. Ecco, credo che sono quello che sono grazie alla passione, alla determinazione e al coraggio”.
Cosa ti ha insegnato la pallavolo?
“La pallavolo mi ha insegnato a sapermi rialzare. In questa esperienza durata più di 20 anni, ci sono stati grandi successi, ma anche momenti di grande difficoltà: il fatto di cambiare squadra, mettermi sempre in gioco, essere costantemente giudicata per via anche del mio ruolo di regista della partita, per il quale mi si chiedeva di essere sempre al top. La pallavolo mi ha insegnato l’empatia, ad allenare chi ho accanto, a cercare soluzioni sempre ed è stata una grande scuola di vita, che oggi porto nella mia quotidianità di madre e donna di azienda. Mi ha insegnato a non guardare indietro e a saper gestire i momenti no, a non aver paura dei cambiamenti”.
La vittoria che ti è rimasta, più di ogni altra, nel cuore?
“Ce ne sono tante, ma credo che il più grande successo in assoluto sia legato alla mia convocazione per la Nazionale. Ricordo ancora quando ho ricevuto la lettera dalla Federazione: ero così emozionata e commossa da non reggermi in piedi. Quando metti quella maglia, hai addosso una responsabilità enorme e allo stesso tempo bellissima; rappresenti dei valori che appartengono al tuo percorso ma anche alla tua terra: è un onore indescrivibile E per me è stata la cosa più bella della mia vita sportiva”.
Se dovessi comporre un allenatore “ideale” sommando le caratteristiche dei coach che hai conosciuto…
“Ho avuto la fortuna di avere tanti allenatori provenienti da ogni parte del mondo: da Julio Velasco a Bernardo Roccia, ma l’elenco potrebbe essere davvero lunghissimo. Di ognuno di loro ho apprezzato delle caratteristiche, ognuno aveva mentalità, metodo e cultura differenti, ma ugualmente straordinari. Credo che l’allenatore debba innanzitutto essere sempre se stesso e debba saper comunicare con i suoi atleti, in ogni circostanza. Credo che una cosa di cui non possa far a meno è l’empatia, la voglia di conoscere i propri giocatori, una caratteristica che a mio avviso contraddistingue un vero leader. E poi, un allenatore deve essere una guida, un punto di riferimento: in questo modo una squadra, un giocatore non si sentono mai soli e sanno quello che devono fare e come comportarsi, avendo la certezza di avere in panchina una figura che in ogni momento fornisce le direzioni, le strategie per affrontare una sfida”.
In che modo lo sport ha condizionato e cambiato la tua vita professionale e personale?
“Dico sempre che lo sport è uno straordinario simulatore di lusso della vita, perché ti dà la fortuna di vivere un’esperienza che in un certo senso è anche fuori dalla realtà, in un ambito che spesso è considerato lontano dalla quotidianità. In un certo senso io e le mie compagne di squadra siamo state privilegiate, abbiamo vissuto esperienze non nella norma,. viaggiato tanto, conosciuto tante persone. Dopo l’attività sportiva ho capito che la pallavolo aveva comunque segnato la mia vita. Da donna d’azienda posso dire che anche questa realtà è come una squadra, in cui devi avere a che fare con tante persone diverse, portare a casa degli obiettivi. Per cui la pallavolo posso dire mi ha insegnato a lavorare con determinazione e concentrazione, a saper pazientare, a dare valore alle persone, ad avere coraggio, a saper far squadra, ad avere resilienza…”.
Come sta cambiando lo sport a causa della pandemia e in che modo, a tuo avviso, da questa drammatica esperienza lo sport può trarne nuova linfa per ripartire?
Una pagina scura, questa, per lo sport, se si pensa che sono state sospese le Olimpiadi, che è diventato difficile allenarsi in serenità e continuità, senza dimenticare il fattore condivisione, che è il valore più grande di questo mondo e che risulta ora fortemente compromesso. Ma da sportiva, la cosa che sento di dire è che questa è un’altra sfida da affrontare, per la quale dobbiamo allenare la pazienza. Sono certa che quando questa triste storia sarà alle nostre spalle, sapremo dare il giusto valore agli allenamenti, alle persone, al pubblico, ai sacrifici, anche alle vittorie”.
Cosa diresti ai ragazzi che vogliono intraprendere la carriera sportiva, sia come atleti che nell’ambito della dirigenza?
“Direi loro che questo è il momento di dare di più, che ognuno ha il dovere di portare a termine i propri sogni con passione, di inseguirli con dedizione e rispetto. Il mondo dello sport, sia quello praticato sui campi da gioco che quello manageriale che si svolge dietro le quinte, ha bisogno di persone formate e preparate, che non smettono di investire sulla propria professionalità. A tutti dico di non avere paura, di mettersi in gioco, di credere in se stessi, di rimboccarsi le maniche, studiare, allenarsi e non fermarsi mai”.
La pallavolo, come un po’ tutti gli sport, è una cosa che ti entra nel sangue e non va più via: quanto manca il campo da gioco?
“Quando penso alla pallavolo giocata sui campi, mi mancano i momenti condivisi con le mie compagne, i viaggi, i percorsi fatti per lungo e per largo in attesa della partita. Ma la mia realtà di oggi è molto simile a quella di allora. In ambito aziendale porto la mia esperienza e i valori del saper fare squadra, della leadership, della comunicazione efficace, della collaborazione e dello stesso spirito di squadra, senza i quali nessuna organizzazione può crescere o vincere”.